People : Tadej Slabe, di Lorenzo Frusteri |
Inviato da tc il 10/2/2010 08:22:54 (5195 letture)
 | Non un'intervista ma piuttosto una parentesi di vita, la vita tral'altro è un susseguirsi di parentesi, dicevamo una parentesi, spedita dal nostro amico col quale ci sentiamo veramente legati, Lorenzo Frusteri, Lorenzo che ha voluto condividere con tutti un tratto della sua vita e della vita di Tadej Slabe, uno dei più grandi arrampicatori di sempre, professore universitario 51enne che prova i 9a e che prova che la vita dell'arrampicatore non finisce con l'avanzar degli anni e che tutto, come sempre, risiede nella testa e nella gente che ci circonda. Lorenzo solitamente non ama che il suo cognome appaia negli articoli ma questa volta ho voluto io che ci fosse, legato, come a scalare, a quello di Tadej. (TL) Buona lettura>> |

| Nell’estate del ’93 mi ritrovai al rifugio Tosa Pedrotti, nel Brenta, a dover passare un pomeriggio piovoso. Il giorno prima avevo avuto il battesimo del fuoco sulla Via Normale al Campanile Basso ...
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| dopo una salita tanto estrema (terminata comunque a sera con rientro a notte inoltrata) un giorno di brutto tempo era quello che mi ci voleva per ritemprare il corpo e lo spirito, dimenticare il terrore del giorno prima e ripresentarmi il giorno successivo alla base di qualche altra parete per altre storiche imprese. |  zoOM+ >> | "Come chiunque sa, l’unico modo di passare il tempo in un rifugio in quota è bere grappa e leggere riviste di arrampicata. Sfogliando una di queste, appunto, un articolo carpì subito la mia completa attenzione: un arrampicatore che non avevo mai sentito nominare prima, Tadej Slabe, aveva liberato due vie corte e durissime dai nomi incomprensibili nelle falesie slovene, a pochi chilometri da Trieste. 8c e 8c+, c’era di che andare avanti nella lettura. Solo quando lessi ciò di cui la persona in questione era capace, la mia adorazione fu completa: 3 trazioni monobraccio su tacca da 1,5; una trazione monobraccio con 3 kg addosso su 1 cm. Quasi venti anni dopo, mi ritrovo un sabato di gennaio sul treno per Trieste. Tadej mi aspetta alla stazione per passare un po’ di tempo insieme, scalare, perché no, e fare una bella chiacchierata su roccia, gradi e arrampicata. E’ più alto di me, magro e si è tagliato i baffi: “Erano troppo bianchi!” mi dice. Ci sediamo in un bar per caffè e dolce, poi siamo raggiunti da sua moglie e dalla loro figlia, appena tornate dallo shopping. So che le falesie di Osp e Misja Pec sono vicine, ma sono quasi le due e mi chiedo quanto tempo avremo per arrampicare oggi, il giorno seguente mette neve. Poi capirò, Tadej non ha bisogno di molto tempo. | Mentre torniamo alla macchina iniziamo a parlare, e mi racconta del suo passato nelle gare: quando iniziò il circuito mondiale lui era già grandicello, sopra i 30, e gli dispiace di non essere riuscito a fare bene come avrebbe voluto; naturalmente si parla degli albori, non c’erano muri di arrampicata, e la federazione fece mettere apposta per lui delle prese direttamente su di una parete di cemento, ma lui si allenava principalmente da solo, al vecchio castello di Lubjiana. Ora in Slovenia ogni palestra di ogni città, anche la più piccola, ha un muro; faccio paragoni con la progredita Italia e poi penso ad altro. In macchina, scherzando, gli dico che non ricordo più nemmeno come fare il nodo, e di rimbalzo mi dice che per ben due volte si è dimenticato di legarsi nella sua carriera: una volta è caduto per pochi metri, battendo la testa “ho potuto vedere l’interno della mia testa, perché per il colpo gli occhi mi sono un po’ rientrati!”, e l’altra per parecchi metri, fratturandosi una gamba molto seriamente e passando quasi un anno prima di poter camminare di nuovo “ma per arrampicare non c’erano problemi, perché le gambe sopportano meno peso!”. La volontà, eh… |  zoOM+ >> |  zoOM+ >> | *Arriviamo al parcheggio, si cambia e parte per il sentiero, 200 metri in leggera salita, mi dà 100 metri di distacco. Quando arrivo lui è già sotto una piccola grotta, calzoncini corti e canottiera (il termometro della macchina segnava 8°), e mi dice “Metto la corda sul mio progetto e poi cerchiamo qualche via per te.” Certo, penso io, ci mette la corda così intanto “prenota” la via, ci scaldiamo e poi la prova. Eh, ingenuo. A tre minuti dal nostro arrivo Tadej si scalda facendo lanci tra tacche in tetto senza piedi, poi passa l’otto alla moglie e parte sul suo progetto. Quanto è duro il suo progetto, volete sapere? Pazientate un attimo. Scopro che la moglie Barbara lo ha sempre assicurato su tutte le sue vie più dure, ma quando sale anche lei sul terrazzino da cui parte la grotta è vestita di tutto punto e non ha l’imbraco. Non ne ha bisogno, Tadej ha messo uno spit alla base delle vie così lei lo assicura da quello!. | E’ difficile capire i movimenti, Tadej li conosce bene ed arrampica in modo molto dinamico, senza tanti complimenti, perdendo i piedi per risparmiare tempo, in gran velocità. Dopo una trentina di secondi al massimo cade, in un lancio ad una presa che si confonde nel bianco di magnesite. Scende, aspetta un minuto e mezzo e riparte. Anche al secondo tentativo cade. Si slega, si cambia e scendiamo. Ora arrampicherò io, in un altro settore. Cosa? Un minuto e mezzo di arrampicata e stop? Ma che fine hanno fatto le giornate in falesia, tornare a casa a buio sfatti, decine di tiri sulle spalle? Tadej scala così: è un uomo estremamente impegnato, professore all’università, ha progetti di ricerca in tutto il mondo, dalla Cina al Brasile, ed ha poco tempo. “Qui è perfetto per me – dice – questi posti sono a metà strada tra casa e lavoro, posso venire in poco tempo, e quando vengo arrampico poco, due, tre tentativi su vie le più dure possibile. E’ anche un buon allenamento!” Mentre io salgo su uno strapiombetto mi parla del suo progetto. Si tratta di ripetere “Sanjski Par Extension” 9a, “Saltando le prese grandi”. Così mi dice, saltando le prese grandi. Tadej ha 51 anni, parte sull’8c (Sanjski Par) a freddo e salta le prese sul 9a. ora il concetto di “il più difficile possibile” assume connotati più precisi, almeno numericamente. Succede un fatto buffo. Lascio la corda in catena, voglio fare una via accanto con la corda messa, ma è un po’ diagonale. Ci pensa Tadej. Sale slegato, portandosi la mia corda dietro, e la passa dentro un fittone. Scende e me la porge. Io rimango perplesso, come faccio ad arrivare in catena? Passo dentro al fittone? Chiedo lumi. “Ah – fa lui – non ci avevo pensato, scusa, io sono abituato così: dopo quel fittone la via è facile, non c’è nessun bisogno di arrivare in catena.” Lo amo. Facciamo cena e restiamo a tavola, bottiglia di vino (io) e tazza di the (lui) – qualcosa dovrei intuire… - e le parole volano leggere per ore e ore. Giocava a basket, prima. Poi ha provato l’arrampicata sul vecchio castello a Lubiana. Fatto. Quando ha iniziato non c’erano vie dure, le ha fatte lui. Io non lo sapevo, ma al tempo ha fatto documentari, film e molto altro: dopo che aveva chiodato la prima via che faceva tutta la parete di Osp, sei tiri, la televisione nazionale lo ha seguito in diretta per la prima libera! Lo bombardo di domande. Lui risponde gentilmente, d’impulso.. |  zoOM+ >> | Dopo avere iniziato a scalare al vecchio castello di Lubjiana, dove peraltro ancora va ad allenarsi, perché c’è un arco che offre “infinite possibilità di progetti durissimi da fare senza piedi”, scoprì di essere portato, e ci si dedicò: finita l’università, passò due o tre anni solo scalando, fin quando non ottenne una borsa di studio. Naturalmente, mi dice, con questa iniziarono anche le responsabilità, e lui iniziò a concentrarsi sull’allenamento, conscio di avere meno tempo per scalare. Anche oggi in tutti i suoi uffici in giro per la Slovenia, ha l’occorrente per allenarsi; quando non era così si svegliava la mattina alle 4 per allenarsi prima di andare al lavoro ( a tutt’oggi si sveglia alle 4 tutte le mattine, il fine settimana alle 6 e mezzo…). In casa dei genitori c’era un tubo del riscaldamento sotto il soffitto: per tutti solo un tubo, per lui una sbarra. E via di trazioni. Senza alcuna preparazione tecnica né pianificazione, inizia a macinare serie di dieci trazioni ogni minuto, e ripete l’esercizio per 70 minuti. “Ma scoprii che non era utile per me!” mi dice ridendo, ed aggiunge che capì che doveva allenarsi per la forza pura. Dita e trazioni diventano il suo pane, con i risultati citati nella rivista. Io chiedo se in ufficio ha il trave o la sbarra e mi dice “il trave, ma non importa. Le mie dita non sentono la differenza tra una tacca o la sbarra.” Per fortuna non ha mai avuto gravi infortuni, perché non ha pazienza. Appena passa il dolore torna subito ad allenarsi: allenamento ed arrampicata per lui sono due esperienze parallele, che hanno valore in sé anche singolarmente: approvo energicamente con la testa. Gli dispiace davvero di non avere fatto bene come avrebbe potuto in gara. Era già grande, e sentiva molto la pressione. “Questione di abitudine. E poi io non sono un competitore nato, ma non mi tiro mai indietro e sono determinato, quando ho un obiettivo non mollo mai. Se oggi mi dicessero che per fare il mio progetto devo fare 10.000 trazioni al giorno, direi non c’è problema, le faccio.” Si allena a casa dopo avere arrampicato, e si allena sul lavoro “faccio trazioni monobraccio sulle tacche, un giorno sì e uno no. Sto seduto tutto il giorno al pc e questo è un buon modo per scaricare la tensione”; scala in palestra o su roccia almeno cinque volte a settimana: pochi tentativi su vie il più difficile possibile. Affronta i progetti da più prospettive, tentativi mirati su sezioni della via, allenamento a secco specifico e allenamento sul muro boulder. “Ho sempre progetti!” ride.
 | In tutto questo c’era un problema. Quando iniziò, le vie più dure nei paraggi erano di VI+. Faceva alpinismo, ma presto capì che questo non lo interessava “Non era più arrampicata, era un’altra cosa. A me interessava lo sport climbing, come atleta”. Gli chiedo se ha avuto una progressione costante, o se in certi momenti ha fatto grandi balzi in avanti: “tutt’e due – mi dice – fisicamente progredivo costantemente, ma mentalmente ho fatto grandi salti”. Certo, fisicamente era già in grado di arrampicare fortissimo, ma ci voleva l’idea, la visione di chiodare dove si pensava fosse impossibile passare; il suo collo si piegava sempre più all’indietro, dalla verticale allo strapiombo al tetto; gli dicevano che era matto, che non aveva senso mettere gli spit in quei luoghi. Avevano torto. La grotta di Misjia Pec, la chiamano “Taddy’s cave”. Chioda le vie impossibili e mette uno spit in basso per farsi assicurare dalla moglie “Questa grotta può essere un posto molto romantico al mattino, quando il sole sorge ed illumina dentro”, la moglie arrossisce. “Senza di lei, niente di tutto questo sarebbe stato possibile”. Lui voleva scoprire cosa era possibile fare con prese naturali, senza scavare, e mi dice che sì, le sue vie sono piuttosto difficili: “Io mi sono preparato a fondo per salirle, chi vuole ripeterle deve prepararsi a fondo”; mi racconta che Fred Nicole, in visita, gli disse che le tre vie più dure al mondo, all’epoca, erano “Action Directe”, “Bain de Sang” e la sua “Za Staro Kolo”. Curioso come pochi, gli chiedo il perché di quei nomi così particolari: “Sanjiski Par” (“Coppia da Sogno”) e “Za Staro Kolo…” (“Per una vecchia bici ed un cagnolino”) e la risposta è una bella storia, sono dedicate alla moglie. La coppia da sogno al tempo erano la Schiffer e Copperfield, e lui pensò, “Beh, se quella è una coppia da sogno, lo siamo anche noi!”, mentre il secondo nome è tratto da una raccolta di poesie della moglie, pubblicata e tradotta in mezza Europa. Tanto di cappello. Gli domando quali vie nel mondo vorrebbe salire, e la risposta mi stupisce. Mi dice che non sa niente dell’arrampicata di ora, non ha tempo di seguire le notizie, non va molto su Internet, “Ma quel ragazzo, Ondra, quando scala, scala. Non lo tiri giù. Butto là uno scherzo “senti, ma perché scalavi con i calzoncini? Non seguivi la moda dei fuseaux in lycra?” e lui ci sta “Certo che sì, anche perché avevo gli sponsor e quindi dovevo mostrare i loro marchi, ma la mia tenuta preferita è calzoncini corti e canottiera o torso nudo, come oggi!” certo, come oggi e come il giorno dopo, in cui quando siamo arrivati alla grotta erano le 9 e mezzo di mattina e faceva 2°. “quando ero giovane l’allora il governo Jugoslavo aveva un programma per gli atleti di livello, e mi davano soldi; in più avevo gli sponsor ma dovevo pianificare la mia stagione con obiettivi precisi anche per questo. Ora sono più libero, faccio tutto solo per me.” Ma aggiunge che gli sponsor lo hanno aiutato molto non solo con denaro o materiali, ma anche e soprattutto perché era la dimostrazione che credevano in lui ed in ciò che lui faceva; alcuni dei principali giornali dedicavano un paio di pagine all’arrampicata ed all’alpinismo, e davano notizia di tutte le salite più importanti e recenti. “Questo era molto importante, perché rendeva l’arrampicata visibile a tutti, anche ai non praticanti, ed uno magari poteva conoscerla e provarla. Ora non è più così, l’informazione è molto più settoriale, ed anche Internet non aiuta. Ci sono siti e giornali dedicati, ma solo gli appassionati li consultano, solo chi arrampica già. Quindi è più difficile far conoscere questo sport a più persone.” Questa è una riflessione interessante ed intelligente. Gli chiedo chi fossero i suoi idoli, al tempo in cui iniziò. Mi racconta che sì, c’era qualcuno, ma non erano veri idoli, erano arrampicatori più forti che lui inseguiva. Cercava di raggiungere il loro livello. E poi mi dice “La via era il mio idolo!”, chiodare una linea apparentemente impossibile e dedicare tutto se stesso a salirla. A me pare bellissimo, e capisco di avere a che fare con una persona che ha attivamente contribuito a ampliare gli orizzonti di questa nostra disciplina, completamente da solo ed isolato dal resto d’Europa. Ha conosciuto ed ha scalato con tutti i più forti, in gara o su roccia, ed ha perso tanti amici in montagna. “troppi” aggiunge. La notte è ormai calata, fuori dalla grande vetrata del salotto non si vede più il bellissimo lago che si crea quando le acque sotterranee crescono troppo a causa della pioggia o dello scioglimento della neve, tagliando la valle in due e sommergendo alcune strade. La casa di Tadej è bellissima. Chiedo a Tadej quale sia stata secondo lui l’innovazione tecnica di maggiore impatto nella sua arrampicata, e mi dice senza esitare “la gomma”, soprattutto quando la Boreal fece uscire le “Fire”; lui ha collaborato a sviluppare tanti modelli, e mi dice con grande mia gioia che scala sempre con almeno 4 o 5 paia di scarpette, perché una parte molto importante per lui è capire, e ci riesce nel giro di poco, quale è la scarpetta giusta per ogni progetto. Mentre parliamo di questo sua moglie arriva con in mano il libro “Rock Stars” di Heinz Zak, con ovvia dedica in prima pagina: naturalmente Tadej ha un posto all’interno, con tanto di fotografia gigante su due pagine, come sempre assicurato da Barbara; lo sfogliamo insieme, sono tutti volti familiari per lui, arrampicatori con i quali ha diviso la corda o le strutture di gara, e per ultimo c’è Gullich “Peccato, chissà cosa avrebbe potuto fare ancora” mi dice. Guardiamo un po’ al passato, e gli chiedo se ha rimpianti. “beh, se potessi tornare indietro, scalerei di più, soprattutto a vista, e mi allenerei un po’ meno! E poi farei più gare, più boulder, e studierei filosofia!” però, dice che in realtà non vorrebbe rinunciare nemmeno agli errori fatti da giovane, soprattutto in allenamento, perché sono parte della sua storia personale. Ormai è quasi ora di andare a dormire, nel mio foglio non ci sono quasi più domande da fare. “cosa provavi quando salivi un tuo progetto?” “ero felice ed appagato, per almeno un minuto! Subito dopo cercavo già un altro progetto, più duro!” “E se cadevi?” “beh, mi arrabbiavo! Qualche volta mi lamentavo con Barbara che non mi aveva fatto sicura bene, ed allora litigavamo, e nella falesia poi calava il silenzio, tutti scalavano zitti…” io sorrido e capisco la profondità della loro storia che lega insieme affetti, passioni. “E ora?” “ho ancora tanti progetti, non sento un calo di forza, le mie dita sono ancora forti. Quando scalo, mi sento ancora senza peso.” Domenica mattina, prestissimo, fuori nevica fitto. Peccato, penso, avrei voluto scalare anche oggi. Dopo una bella colazione usciamo, il termometro segna -3° ed io mi preparo ad essere lasciato alla stazione di Trieste. Alla rotonda però Tadej gira, e capisco che andiamo a scalare, del resto qui non nevica più ed abbiamo due generosi gradi sopra lo zero. Scendiamo e lui parte su per il sentiero, mi semina anche stavolta ed io fingo di essermi attardato a parlare con sua moglie; quando arriviamo Tadej è già con la corda in mano, le scarpette ai piedi, calzoncini e canottiera come da programma. Saliamo anche noi, la moglie lo prende con l’otto e lui spara due tentativi a raffica sul progetto, poi mi chiede se voglio provare “Sanjski Par” 8c, o “Za Staro Kolo” 8c+: messo di fronte a questa scelta prendo il male minore e dopo circa quattro vie con la corda in dieci anni, con 2°, senza riscaldamento, parto sull’8c. Le risate. Lui dice che i movimenti non sono duri, il difficile è concatenarli, io freno le bestemmie e cerco di stare attaccato a queste tacche lisce e spioventi, i piedi pressati, agganciati, tallonati, incastrati, tutto purché non partano via. Pochi secondi e sono appeso. Scendo e riparto, “a Roma fa’ come fanno i romani” penso. A forza di botte e lanci metto insieme qualche movimento, e penso a come lui andava via da questa sezione (quella facile) della via; penso che mi aspetta il duro e mi viene una voglia terribile di stare qui tutto il giorno, a provare passo dopo passo ad arrivare in catena, pochi metri più su, ma poi la fatica, il freddo, ed il pensiero che loro stanno aspettando me, mi convincono a dire “cala, non ce la faccio più”. Sono felice. Mi sono divertito. Ho messo insieme un po’ di movimenti belli e duri e questo è proprio il mio stile, mi sento molto vicino a Tadej per la sua idea dell’arrampicata, molto lontano per la forza. 
La stazione. Ci salutiamo. Io non posso fare altro che ringraziarli del loro tempo, della loro ospitalità e gentilezza. Un’ultima foto, poi è davvero ora di andare. Sono davvero felice. Ho conosciuto una grande persona, prima che un grande arrampicatore; si è aperto e mi ha raccontato tutto, anche storie che non mi sento di scrivere; mi ha accolto in casa e mi ha mostrato le sue vie. Inoltre, e questo è un regalo che non ha prezzo, ha avuto fiducia in me e mi ha offerto di provarle. Sono davvero loro, la “Sanjski Par”, ora ne sono certo. Ci stringiamo la mano, e prima di salire in macchina, come se si fosse appena ricordato una cosa, si gira e mi chiede “dove sono le vie più dure, in Italia?” Sorrido, e penso che ci rivedremo. Grazie Tadej.
Foto e testo: Lorenzo Frusteri
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